La terribile promessa del Signore Gelido

Monologo

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    Pizzicò col ditino morbido lo strato già spesso di neve che si era accumulato, affondandolo sino a sentir bruciare tutto il palmo ed il dorso tenerello della mano per il gran gelo che li avvolse; anziché protestare sorrise contenta la piccola nana, incurante di quei fiocchi bianchi che conquistavano le ciocche castane.
    Era affilato lo sguardo, concentrato su un solo punto, fra i rami già spogli ove riusciva a individuare qui e là vecchi ammassi di ramoscelli, abbandonati dai migranti alati durante la stagione fredda.

    Chissà se anche Vhara era in un posto caldo ed accogliente, se il sole splendeva su quella neve perenne che era la sua bellissima chioma; se stava bene e mangiava tutto, se il futuro re le piaceva almeno un pochino.
    Il ditino gelato raggiunse le labbra, dischiuse ad accoglierlo per succhiarlo, il tempo necessario affinché lei riflettesse su un pensiero profondo: non era importante essere principi o principesse, re o regine.
    Presto o tardi tutti i fiori cadevano e marcivano.
    Tutti si aspettavano da lei che facesse giudizio, che seguisse le regole di corte, perché tutti loro facevano parte dello stesso albero.
    Non erano come i fiori più semplici che crescevano ai suoi piedi.

    Eppure l'inverno coglieva tutti allo stesso modo ed il solo modo per beffarlo era quello di lasciare un piccolo grano nel mondo che germogliasse a primavera.
    Ed era così che lei si sentiva: un granino, diverso d tutti i cuccioli che camminavano sulla terra, perché i suoi due fiori erano stati inghiottiti dall'inverno.
    Un pensiero piccolo ma per lei immenso e le lacrime affiorarono apparentemente senza ragione agli occhi dell'infante, che corse ad abbracciare il tronco di una quercia singhiozzando.

    Una quercia come il suo papà; di lui il signore gelido si era preso tutto il tronco e lei era la sua piccola ghianda.
    Una folata di vento le sferzò il viso, sibilando alle sue orecchie quella che era la parola d'onore del suo Signore.

    Verrò a prenderti, Faralyn.

    Affondarono le dita in quella corteccia, mentre lei premeva il capo contro quel tronco che non la stava difendendo dal terrore che le faceva tremare tutto il corpicino minuto.

    «No! No, brutto! Via!»

    Uno sbuffo più algido, in preda alla collera e le strappò via il mantello caldo per condurlo iroso su, a disegnare una traiettoria irregolare nell'aria per essere preso a pugni dallo spietato messaggero.
    Era ben chiaro chi avesse il potere, fra loro due.

    Prenderò i tuoi zii, Faralyn. Hanno già i loro bambini e appena avrò il tuo... Sarai mia per sempre, sciocca ragazzina! Ahahahah!

    Echeggiò in un ululato quella risata cupa, alle quali gli alberi s'inchinarono, mosse da un sacro e primordiale terrore.
    Obbedienti, schiave di quel destino.

    «No!»

    Fuggì via la principessina, anima innocente e del tutto inconsapevole di quanto gli eventi di quella breve ma già tortuosa esistenza l'avessero tratta in inganno e mutato il sibilo del poderoso vento del Nord, giunto naturalmente come ogni stagione, nella cupa e tetra voce di quella che era la sua paura più grande: veder morire ancora una volta i suoi cari, straziando quel fragile animo che pur lottava per divenire forte contro le tempeste.

    Conscia che quella promessa si sarebbe tuttavia prima o poi mantenuta, una volta rincasata avrebbe fatto i conti con le proprie angosce e il senso di perdita e cordoglio che queste avrebbero condotto a lei.
     
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